Il lavoro, in Calabria, non nobilita l'uomo

“Ma non era..?” “Si si, era lui”. Questo breve scambio di battute è ciò che capita ad ogni calabrese che passeggia per le città del nord e centro Italia. Succede spesso, infatti, di vedere negli esercizi commerciali facce conosciute di persone del proprio paese che magari non si vedevano da anni.

Con stupore giustificabile e in fin dei conti senza malizia se solo non fosse quasi sempre corredato dal classico “azz, lavora lì?”.

Ci sembra strano, ci spiazza che proprio quella persona che avevamo conosciuto in Calabria lavori e per di più come commesso/barista o altro di simile.

La vergogna per il lavoro, specie quello manuale, è un qualcosa di molto diffuso in Calabria. E' un retaggio che ci portiamo dietro da qualche decennio come popolo e in ognuno di noi si può dire dalla nascita.

E' l'ansia di riscatto sociale individuale e collettivo che provoca questo fenomeno. Che è cieco e irrazionale. Ma che provoca danni enormi e che sembrano non avere cause apparenti, “è così”.

E' vero, la situazione dei salari in Calabria, sia in termini di peso e affidabilità non è sempre rose e fiori, ma chiunque abbia provato ad offrire lavoro di tipo manuale, ma non solo, si è scontrato di fronte ad un vero e proprio paradosso: non si trovano i lavoratori o se si trovano credono di aver diritto sin da subito e senza qualifiche a compensi da ingegnere della NASA. Poi però gli stessi personaggi decidono che la Calabria non “è terra per patate” e vanno via. Lavorando e vivendo in condizioni uguali se non peggiori a quelle che avrebbero ottenuto in Calabria. Lontano dagli affetti e dalla loro terra.

E in Calabria sono sempre meno gli artigiani, linfa vitale del sistema economico italiano e potenzialmente in grado di essere i protagonisti del superamento della famosa crisi. E questo perché non trovano più giovani apprendisti a cui trasmettere l'arte, a cui “insegnare un mestiere”.

Non accade questo invece al Nord, è risaputo, dove studiare è visto come una perdita di tempo, meglio avviarsi subito al lavoro in fabbrica. Salvo poi lamentarsi se a lavorare nei posti in cui è necessario avere un titolo si ritrovano i meridionali che sul titolo hanno giocato tutto.

La mia è una profonda e netta critica allo “snobismo” e alla rigidità del calabrese, e in fondo dell'italiano, in ambito lavorativo. Rigidità e snobismo che non permettono di raggiungere quella serenità e capacità di (sano) adattamento che renderebbe possibile superare, da individui e da popolo, tutte le crisi presenti e future. Ma la rabbia più grande la provoca la consapevolezza che questa rigidità, come tanti altri comportamenti e blocchi mentali calabri, svanisce d'incanto emigrando in altre località.

A dimostrazione che è quindi quasi esclusivamente una questione di testa.

Ma ci può stare e nessuno, me compreso, dovrebbe sindacare la dignità e le aspirazioni di ognuno.

Però mi si conceda almeno l'incredulità nel non spiegarmi, da reduce dal bombardamento elettorale appena passato, perché, da quel che ho potuto notare personalmente, così tante persone hanno svenduto il proprio diritto di voto in cambio di una promessa di lavoro che altro non è che nella migliore delle ipotesi un legare a vita il proprio destino a politicanti che giocando sui destini della gente basano le proprie fortune.

Fortune che purtroppo, non mi stancherò mai di sottolinearlo, non coincidono mai con le fortune collettive di una terra e di un popolo, ma che anzi sono alla base della loro rovina.

(dalla Rubrica CalabroItaliano di IF Magazine di Maggio)

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